GIANFRANCO LAURETANO: la rivolta contro l’insegnamento della letteratura? Colpa delle università

Una preparazione universitaria di stampo strutturalista è la causa di tanta disaffezione per la letteratura e la lettura nei giovani. Ma qualcosa sta cambiando.

Anche oggi sono tornato da una lezione di scrittura narrativa in un liceo della mia città dove i ragazzi che ho incontrato, pur essendo gran bei tipi, non sopportano Alessandro Manzoni e i suoi Promessi Sposi. È ormai una situazione frequente: la letteratura, questa straniera, questo corpo estraneo nelle scuole della Repubblica italiana. Numerosi insegnanti d’altronde confermano questa impressione: sembra che i testi classici, gli autori della nostra storia siano avvertiti sempre più come inutili orpelli al corso di studi istituzionale. Una vasto nonsenso, una caparbia stanchezza, una sotterranea rivolta verso l’insegnamento delle materie umanistiche striscia nella scuola italiana. La materia più affascinante, la storia, è schifata; la scrittura possibilmente evitata come un fastidioso mal di denti; dalla lettura la maggioranza dei ragazzi scappa a gambe levate, non appena ghermito il diploma. Ricordare le basse percentuali di lettori italiani è pleonastico.

Ciò contrasta con altre esperienze avute di recente. A fine febbraio ho partecipato con un mio intervento ai “Colloqui Fiorentini”, che da diciassette anni radunano nel capoluogo toscano migliaia di prof e studenti per ascoltare e poi rielaborare le tematiche letterarie proposte in focus e laboratori. Al Mandela Forum, il palasport di Firenze, avevo di fronte un “muro” di 3.500 persone convenute su quegli spalti ad ascoltare un mio intervento sulla poesia di Eugenio Montale. Oggigiorno non è normale. Soprattutto non è normale il fiume di lavoro, di ripresa, di contatti con prof e richieste di amicizia sui social, di gratitudine e di continuità scaturito da quell’oretta. Quello che ho cercato di fare consisteva nel raccontare che la poesia di Montale ci riguarda, ci parla ancor oggi, ci emoziona e ci interroga. Testi alla mano, li ho letti a quella fantastica platea non come se fosse una platea; ognuno di loro era all’altezza di Montale e viceversa, per me. Un ragazzo alla fine dell’incontro è venuto e, invece di chiedermi una foto come gli altri duecento, mi ha rivelato che la sua vita da quel momento era cambiata in meglio. Non volevo, giuro. Eppure è successo.

La scuola, di ogni ordine e grado, è gravata da pesi di tipo burocratico e strutturale che stanno diventando dei macigni. C’è un’ansia di misurazione e di valutazione, ormai, che non stenterei a definire molestia docimologica. Più le statistiche e i raffronti internazionali si ostinano a certificare i nostri bassi livelli di istruzione, più aumentiamo le misurazioni e le valutazioni per capire dov’è l’inghippo e poi dare fantomatiche soluzioni al problema, col risultato di rendere sempre più stanco e gravoso il compito di chi insegna. La scuola purtroppo è un luogo in cui la maggior parte di chi va a insegnare o a imparare non è contento di andarci. Per chi si occupa di materie umanistiche il problema è doppio: se tutto sommato risulta semplice valutare la soluzione di un problema matematico o tecnologico oppure l’apprendimento di una legge fisica o chimica, se insomma in campo scientifico la valutazione dei risultati può essere più facilmente oggettiva, valutare quelli delle materie umanistiche è più difficile, scivoloso, spesso impalpabile, perfino quando si tratti di dare un voto all’uso della lingua italiana.

Da qui uno strano complesso di inferiorità che investe i prof umanisti, che discende dall’università fino ai primi livelli della scala dell’istruzione (il pesce comincia a puzzare sempre dalla testa). E di qui il loro vano tentativo di adeguare le loro valutazioni a quelle inevitabilmente più scientifiche dei colleghi scienziati o tecnici. Non si capisce, stranamente, che se per questi ultimi il rapporto tra studioso e materia di studio si può definire come quello tra soggetto e oggetto, nel caso della letteratura l’oggetto di studio, un’opera letteraria o un autore, mantiene irrimediabilmente la sua natura di soggetto, come spiega assai bene la studiosa dostoevskjana Tat’jana Kasatkina.

Insomma Dante, Leopardi, Manzoni, Montale e i loro libri vanno incontrati come persone prima che come oggetti; quando si parla di Petrarca si dovrà accennare, certo, alla struttura del sonetto, ma il discorso principale dovrà riguardare l’amore, in assenza e presenza dell’amata, perché di questo il poeta ha scritto. E così via. Si capisce bene che ridurre questo a test, questionari, voti e numeri è tutt’un’altra faccenda rispetto ai teoremi matematici o alle formule chimiche. E di tutt’altro tipo dovrebbero essere gli insegnanti, e le regole che la scuola impone loro nel rapporto coi ragazzi. Se infatti la scuola è innanzitutto e soprattutto una relazione educativa, questa sua natura è particolarmente evidente in campo umanistico e letterario.

Sono concezioni che troppo lentamente stanno entrando nella mentalità dei docenti, ancora in nulla recepite da chi negli ultimi anni ha governato la scuola senza capire niente e che, d’altronde, pare sia stato severamente punito nell’ultima tornata elettorale. I Colloqui Fiorentini, che esistono grazie alla passione educativa e culturale di Gilberto e Pietro Baroni, bellissima testimonianza di sinergia tra padre e figlio, sono un po’ più di una breccia nel muro statico e strutturalista della scuola italiana. Migliaia di docenti e decine di migliaia di studenti ci sono passati e hanno visto che uno sguardo diverso, cioè vero, alla letteratura è possibile. Una goccia scava la roccia, ma questa è una cascatella. Speriamo che vengano tempi in cui le indicazioni di un lavoro così prezioso ed entusiasmante arrivino anche allo sguardo di chi ha i mezzi per proporne il metodo a tutti.

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